Realizzare un film di vampiri senza una sola goccia di sangue. La casuale immersione nel magmatico mondo di Jess Franco prosegue. Dopo essere passati attraverso uno dei film minori della sua sterminata produzione ci immergiamo in una delle pellicole di cui i francomani parlano di più.
Il titolo. Qui sorge il primo problema ci sono talmente tante versioni di questo film che è difficile dire di preciso quale sia il titolo. Il titolo con il quale è più conosciuto, e che forse dipinge meglio lo spirito del film, è “La comtesse noire”. La versione che personalmente ho procurato, quella edita in Dvd dalla Ermitage, e che stando a quanto ho capito è la più vicina a quello che doveva essere il film originale voluto da Franco, si intitola “Un caldo corpo di donna”, anche se nei titoli di testa il titolo riportato è “Female vampire”. In Francia usci come “La comtesse aux seins nus”, la versione hardcore tedesca “Lusternde Vampire in Spermareusch”. E’ conosciuto anche come “Erotikiller”, “Erotikill: the loves of Irina” e “Les avelauses”.
Pressoché ad ogni titolo corrisponde un montaggio diverso, che cambia anche radicalmente il succo della storia. Il succo della storia è semplice. C’è questa stupenda vampira di Madera che uccide le sue vittime succhiandogli il fluido vitale attraverso fellatio e cunnilingus.
Ma in alcune versioni horrorizzate la vampira è una semplice e solita vampira che azzanna al collo, ma queste versioni non erano esattamente quelle che voleva il regista e sono da rifuggire come la peste, perdono tutta le splendida poesia dell’idea originale.
Il film si pare con una delle scene più famose di tutto il cinema di Franco. La prima apparizione sugli schermi di Lina Romay, quella che diventerà sua moglie, qui appunto la contessa Karnstein, è una lunga passeggiata nei boschi di Madera all’alba, nella nebbia, con indosso solo un mantello nero, degli stivali di pelle e un cinturone.
Cruccio e delizia. La scena è amatissima dai francomani, e lo sto diventando devo dire, e citata come esempio del suo cinema sciatto dai detrattori. Per tutta la lunghissima sequenza la Romay guarda dritto nella cinepresa, i canoni del meta cinema di Franco, di un cinema che esce dallo schermo, si fa realtà, che mischia costruzione, finzione e girato, ci sono tutti e culminano con l’urto accidentale della Romay col mento sull’obbiettivo, il cinema che si scontra con la finzione. Pura sciatteria per i detrattori, sublime e geniale per i francomani.
Non starò a fare la comparazione tra le varie versioni, cosa fatta peraltro benissimo da Roberto Curti sul dossier Succubus 1, allegato a Nocturno del luglio del 2007.
Mi limito a sottolineare la stupenda poesia psichedelica di tutta la pellicola. Il corpo della Romay è sempre in primo piano. In tutte le varie uccisioni/rapporti sessuali, del film, nella sua frustrazione nel vampirizzare così anche chi ama, una delle sottotrame del film è la storia d’amore con Jack.
Alla fine un suicidio autoerotico in una vasca piena di acqua rossa, sangue, liquido vitale. Un capolavoro che si potrebbe gustare all’infinito viste le mille varianti messe in campo.