Cinema – L’incredibile storia del Don Chisciotte di Orson Welles (terminato dallo zio Jess)

Il mondo del cinema è pieno di storie legate alla realizzazioni di film che vale la pena di raccontare. Storie che spesso sono più intriganti del film stesso di cui sono il retroscena. Storie dove si toccano estremi che spesso si credono zenit e nadir. Una di queste storie l’ho raccontata in un romanzo. Ma il mio vagabondare mi ha portato ad incontrarne un’altra che meriterebbe altrettanto spazio: la storia del Don Chisciotte di Orson Welles. Un film che ha avuto una gestazione durata quasi 40 anni e che in fondo non dovrebbe esistere. Ma esiste eccome ed è un capolavoro, forse mancato.

Akim Tamiroff nel ruolo di Don Chischiotte

Partiamo dalle parole di Welles stesso per capire quale è stata la genesi del film:

“Come ho deciso di girare Don Chisciotte? Avevo cominciato a fare un programma per la televisione di mezz’ora, avevo il denaro giusto per farlo; ma sono caduto così perdutamente innamorato del mio soggetto che l’ho ingrandito via via e ho continuato a girarlo man mano che guadagnavo dei soldi. Si può dire che il film si è ingrandito mentre lo facevo. E’ un po’, voi lo sapete, quello che è accaduto a Cervantes, che cominciò a scrivere una novella e finì per scrivere il Don Chisciotte . E’ un soggetto che non si può più lasciare una volta che lo si comincia”.

Cominciamo a mettere qualche paletto. Siamo negli anni ’50. Il grande cineasta americano riceve l’incarico dalla Rai, si dalla tv di stato italiana, di realizzare una serie di documentari ambientati nella Spagna che sta mutando. I documentari si sarebbero intitolati, appunto, Nella terra di Don Chisciotte. La lavorazione di quei documentari la racconta uno della micro squadra che li realizzò, Alessandro Tasca di Curò:

“giravamo con una troupe di cinque persone. Welles, io, un tecnico del suono che conduceva anche il camion Volkswagen che avevamo, un operatore nostro, uno della tv spagnola e facevamo tutto; io facevo l’elettricista, il trovarobe. Orson amava girare in pochi e ognuno faceva tutto quello che c’era da fare. In certe occasioni avevamo quattro o cinque apparecchi in 16 millimetri, ad esempio alla Fiera di Siviglia eravamo in cinque a girare, ognuno di noi teneva una camera in mano e se vedevamo qualcosa d’interessante lo riprendevamo e poi naturalmente lui sceglieva quello che voleva”.

Welles prende a cuore la realizzazione del documentario, vorrebbe montarlo personalmente e registrare la traccia audio della narrazione utilizzando la sua voce, parlava bene in Italiano. Degli oscuri funzionari, sempre stando alle parole di Tasca,

“obiettarono che così la narrazione avrebbe avuto un accento straniero. A nulla valse tentare di convincerli che era una delle voci più famose in tutto il mondo. Fecero il solito doppiaggio piatto e poi chi si è visto si è visto. E lo stesso fecero con il montaggio”.

Don Chisciotte e Sancho Panza secondo Orson Welles

Ma intanto Welles si convince che deve assolutamente realizzare un film che narri le vicende dell’Hidalgo, dell’eroe puro di Cervantes. Siamo nel 1955 quando inizia a girare metri su metri di pellicola per mettere assieme il film. Un processo che, come abbiamo visto, lo prende fin nell’anima. Alla fine girerà materiale per 14 anni consecutivi. Nei posti più disparati: Spagna, Messico, Italia (in periferia di Roma). Quando ha già realizzato migliaia di metri di pellicola dichara:

“potrei montare tre film con il materiale già girato. Il film, nella sua prima forma, era troppo commerciale; esso era concepito per la televisione e io ho dovuto cambiare certe cose per farlo più duro. La cosa più folle è che Don Chisciotte è stato girato da una troupe di sei persone. Mia moglie era sceneggiatrice, l’autista piazzava le lampade, io dirigevo, ero direttore della fotografia e operatore in seconda. E’ soltanto attraverso la camera che si può anche avere l’occhio a tutto”.

Questa dichiarazione risale al 1964, sono già 9 anni che mette assieme materiale, nella stessa intervista dichiara anche:

“ora il film è veramente terminato. Non mancano che tre settimane circa, per le riprese di qualche piccola cosa. Quello che mi preoccupa è il suo lancio: io so che questo film non piacerà a nessuno. Sarà un film esecrato. Io ho bisogno di ottenere un grande successo prima di metterlo in circolazione. Se The Trial avesse avuto un successo di pubblico come di critica, allora avrei il coraggio di fare uscire il mio Don Chisciotte. Essendo le cose quelle che sono, io non so cosa fare: tutti si metteranno in collera contro questo film”.

La paura di Welles lo porterà ad andare avanti a girare per altri 5 anni, altro che tre settimane, disseminando materiale per tutto il mondo, affidato a persone diverse, a magazzini diversi, a mani diverse. Tutto confezionato in piccole bobine senza numerazione così da rendere davvero difficile per un esterno capire cosa avesse in mente. Ad un certo punto Welles dice che non può finire il film perché l’ultima scena è irrealizzabile.

Don Chisciotte al cinema

L’aneddoto della parte finale lo racconta François Truffaut nel 1978:

“la ragione che Orson Welles offre per spiegare l’incompletezza del film è la necessità di filmare, per la scena finale, l’esplosione della bomba H che distruggerà tutto e tutti, eccetto Don Chisciotte e Sancho Panza. Si è creato attorno a questo film, attraverso gli anni, una specie di leggenda che non sarebbe sorprendente immaginare che Welles preferisca restarne l’unico spettatore”.

Orson Welles muore. E’ il 10 ottobre del 1985, 30 anni dopo l’inizio delle riprese del film. Il 1985 è un anno strano per questa storia. Nello stesso periodo in cui Welles muore nei magazzini della Rai Marco Melani e Enrico Ghezzi rinvengono i documentari del 1955. fino ad allora quei documentari erano quasi una chimera, nessuno davvero sapeva del lavoro televisivo italiano del genio americano. Un lavoro che lascia a bocca aperta per modernità, ma che ugualmente rimane nell’oblio, non essendo mai stato ritrasmesso integralmente. Sembra che la parola fine sia stata quindi messa definitivamente sulla storia del film. Ma non è così.

Orson Welles sul set

Dopo la morte di Welles inizia la corsa al recupero del metraggio abbandonato in giro per il mondo e il tentativo di effettuare un montaggio del film. Molto lavoro lo possiede Mauro Bonanni, che con Welles aveva collaborato,

“un giorno chiesi a Welles perché il Don Chisciotte era diviso nel montaggio in tanti piccoli rullini. Mi rispose che se qualcuno li avesse trovati, non avrebbe dovuto capirne la consequenzialità, che conosceva solo lui ed era regolata da un codice che soltanto lui conosceva”,

racconta quello che Welles considerava come il suo figlio siciliano.

Il primo tentativo di dare un volto al film viene fatto nel 1986, a tentare l’operazione è niente meno che Costantin Costa Gavras per la Cinematheque. Mette assieme faticosamente un pre montaggio di 40 minuti e lo mostra a Cannes nel 1986. Ma il progetto naufraga, troppo poco materiale a disposizione e troppa distanza tra i due animi registici per arrivare ad avvicinarsi anche solo lontanamente all’idea originale. Bonanni possiede legalmente circa 20 mila metri di pellicola, di cui ad oggi non ha fatto praticamente nulla. In quegli anni viene annunciato un mega progetto di montaggio annunciato da Suzanne Cloutier con Robert Wise e addirittura Marlon Brando che racconta.

Ma c’è qualcuno che ha messo la parola fine ed un montaggio lo ha realizzato e presentato, all’Expo di siviglia del 1992 e nello stesso anno a Cannes. E’ qui che l’infinitamente alto di Welles incontra l’infinitamente basso (ma non in senso dispregiativo) che preannunciavamo all’inizio. Si perché l’unico modo per vedere il Don Chisciotte di Orson Welles che ad oggi abbiamo a disposizione è guardare il film che negli anni ’90 è stato montato da Jesus Franco. Si lui. Lo Zio Jess era stato collaboratore di Welles nei suoi anni in Spagna e ne conosceva bene la mentalità e le idee,racconta:

“ho collaborato con Orson, nel 1965 come regista di seconda unità del Falstaff, ma prima ho avuto la fortuna di affiancare molti altri registi bravissimi”.

Ma come si è arrivati ad affidare al più prolifico regista di tutti i tempi, al pazzo scatenato che ha inventato le vampire lesbiche, che ha girato film di donne in carceri, secondine sadiche, l’inventore del dottor Orloff, un progetto così importante?

Oja Kodar e Orson Welles

E’ Oja Kodar, ultima moglie di Welles, “una pazza croata”, come la definisce Franco, ad affidare allo zio Jess il progetto di partire per il mondo a cercare di raccogliere tutto il possibile. “come un investigatore privato”, racconta il regista spagnolo che alla fine riuscirà a mettere assieme più di 120 mila metri di pellicola. A questo punto inizia il lavoro di montaggio. Non ci sono direttive precise di Welles, come abbiamo visto, che anzi ha cercato di rendere il più frammentario possibile il girato. Ma Franco tra il materiale rinviene un nastro audio in cui Welles prova i dialoghi da solo, “facendo tutte le voci”, e ha quindi una buona traccia su cui partire per iniziare a mettere assieme un montaggio del film. Il materiale che Franco si ritrova tra le mani è povero, un misto di 16 e 35 millimetri girati quasi tutti in maniera altamente artigianale. Materiale girato spesso in condizioni di fortuna. “La pellicola spesso abbandonata per anni alle intemperie di qualche magazzino”, racconta il regista spagnolo che in un caso trovo la pellicola in una sorta di stalla ricoperta solo da un po’ di paglia per l’umidità. Prima di tutto quindi deve ripulire la pellicola, fare un lavoro preziosissimo di conservazione dei fotogrammi, e solo per questo l’operazione andrebbe salvata su tutti i fronti.

Jesus Franco

Franco ovviamente ci mette del suo, per chi conosce la mano del cineasta spagnolo non è difficile cogliere nel montaggio modernissimo, nell’inserimento di alcuni zoom che evidentemente sono stati girati ma mai sarebbero entrati nel montaggio di Welles, e in grandi momenti quasi psichedelici, il tocco dello zio Jess. Ma tolte queste piccole concessioni che uno spettatore normale, o un fan di Welles, non coglierà minimamente, il film presenta un grande lavoro certosino per cercare di restituire un immagine di quello che avrebbe dovuto essere. La vicenda è quella del romanzo di Cervantes, anche se l’ambientazione è moderna. Per cui oltre che le pecore ed i mulini a vento il Don Chisciotte di Welles/Franco si scaglia anche contro un motorino, “bestia malefica che ha stregato una pulzella”, contro una processione nella Siviglia degli anni ’60. Sancho si ritrova a fare la comparsa in un film di Orson Welles su Don Chischiotte in un infinito rimando di specchi, visto che viene a sapere della cosa dalla televisione, che lui chiama “la scatola che fa rumore e che parla del mio padrone”, e cerca di calarsi nella modernità a Pamplona, dopo essere sopravvissuto alla corsa dei tori, liberando il suo padrone e proponendo lui di cercare un missile per andare sulla luna, che sa benissimo che i missili esistono, li ha visti nella scatola del rumore che fa boom.

Il film è a mio parere stupendo e toccante e i due attori di una bravura incredibile, somigliano davvero alle statue dell’eroe che si vedono nella Spagna moderna. Il filiforme e altissimo Akim Tarmiroff e il Sancho di Francisco Reiguera invecchiano e ringiovaniscono da una scena all’altra. Ma passa in secondo piano di fronte alla genialità del meta cinema wellsiano che Franco porta all’ennesima potenza con suo tocco da artigiano del sottogenere e con i mezzi degli anni ’90.