RACCONTI – Il duro e la finestra illuminata

Avete presente quando in un locale da ballo ci sono quelli che in pista ballano, fregandosene di poter sembrare ridicoli, socializzano, insomma fanno tutte le cose normali che si fanno quando si sta in un luogo affollato dove la gente suda e i ferormoni volano alti e si cerca in qualche modo la via dell’accoppiamento. Ecco avete presente che di solito c’è sempre quello appoggiato al bancone da solo che si guarda in giro con lo sguardo truce, quindi ovviamente non viene avvicinato da nessuno. Quello che lancia sguardi di sufficienza e sorseggia una birra cercando di sembrare cattivo, ma che dentro morirebbe per essere considerato da quella morettina formosa che balla a 2 metri da lui, sembra essere da sola, attira gli sguardi di tutto il locale ma sembra non lasciarsi afferrare. Ecco quello sono sempre stato io.

Non è che fai il figo. Ti senti inadeguato. Inspiegabilmente poi anche questa categoria trova modo di perpetrare la specie. Forse perché lo spirito darwiniano alla fine è più forte di qualsiasi altra cosa. Ho trovato un lavoro adatto a questa tendenza (sguardo truce, stare fermo). Faccio la guardia notturna in un grande magazzino di materiale edile. Periferia che sembra quasi centro della città. Me ne sto piantato davanti all’ingresso dalla mezzanotte alle 7 del mattino. A fare nulla. Guardarmi in giro con sguardo truce.

Poi una sera si era accesa una luce. Faceva un gran caldo estivo. Ero tutto sudato nella divisa. In una delle finestre della palazzina di fronte si era accesa una luce in una stanza. Il mio sguardo era stato attirato. Si erano aperte le imposte e la via era stata invasa da un chiarore lieve e notturno, giallastro. E poi alla finestra era apparsa una figura. Lei era bellissima, per quanto possa essere bello un essere che intravedi e un po’ immagini.

Avevo pensato che i nostri sguardi si fossero incrociati. Ma forse era solo immaginazione. La pelle bianchissima, uno sguardo che da lontano mi sembrava triste. O forse era solo il sonno. La sera dopo la luce si era accesa all’inizio del mio turno e si era spenta mentre stavo per andarmene. Pensavo che forse la ragazza avesse passato la notte a studiare, o con gli amici. Ma la cosa si era ripetuta per tutta la settimana. Ogni tanto la vedevo passare nella stanza. Il fine settimana non lavoravo. Non so cosa mi spinse a passare. La luce era spenta.

Lo strano rituale della luce era così diventato una consuetudine. Era solo una tenue luce ma mi faceva compagnia. Era come se la ragazza fosse li. In silenzio. A guardarmi mentre lavoravo. O così volevo pensare che fosse. Ogni tanto si affacciava qualche istante. Gli sguardi si incrociavano. Mi sembrava di sentire il profumo di quella pelle di luna spruzzata di efelidi.

Ci ho messo tre settimane ad alzare la testa e sorridere. Un’altra settimana per fare un cenno di saluto. Ogni volta che aggiungevo un piccolo tassello quello rimaneva anche la sera dopo, e quell’altra dopo ancora. Mi sentivo molto meno il duro al bancone. Ma l’estate stava finendo. Presto, pensavo, non ci sarebbe più stato bisogno di una tenue luce e della finestra aperta.

E se domani mattina alla fine del turno provassi ad aspettare un po’? Magari scende per andare al lavoro, a scuola. E posso offrirle un caffè. Magari stanotte ci provo. Magari.