Nel 1974 le figurine della Panini erano strane. Non raffiguravano ancora quel piano americano a cui siamo abituati da più di 30 anni, io le ricordo così dal 1980 anno del mio primo album, erano una foto intera, spesso scattata in campo, magari poco prima di una prova agonistica. Eppure la sua foto lo mostra in posa ben poco plastica. Gambe leggermente divaricate, nella mano sinistra qualcosa di non identificato, forse la mitica radiolina che teneva in panchina per ascoltare Tutto il calcio minuto per minuto e aggiornare i compagni sull’evoluzione delle partite, che si giocavano tutte sporche e subito, nessuno spezzatino e nessuna tv cannibale. Addosso ha una improbabile tuta, viola scolorito. La faccia dura da gregario che meriterebbe subito una canzone di Paolo Conte. Il sorriso stiracchiato di chi ha vinto tre scudetti di fila senza mai toccare un pallone. Fa il portiere e sotto la foto ci sta scritto: Massimo Piloni, Juventus.
E allora se hai un minimo di conoscenza di quel calcio ruggente in cui c’erano eroi onesti che avrebbero detto che la palla era entrata in porta, dove non c’erano veline e discoteche, capisci perché Massimo Piloni ha un sorriso stiracchiato ed è in tuta. Perché davanti a lui c’era un mostro, un mito, una statua silenziosa ed inattaccabile, quello che era Andrea Palladio per Vincenzo Scamozzi. “Quello che non mi lasciò giocare neppure in amichevole nella mia città Ancona”. E si che il presidentissimo lo aveva predestinato, e quando Boniperti diceva una cosa non era mai a caso. Allevato sin da piccolo sui campetti di periferia delle giovanili della Juventus, mandato a farsi le ossa a Caserta nel 1968 che mentre l’Europa bruciava Massimo sognava di sentire dietro a se la curva in delirio per una sua parata. Illuso.
Ma il 14 aprile del 1971 sembrava tutto diverso. Mentre Paolo IV dava udienza per Massimo c’era una coppa da vincere, la Coppa delle Fiere, che bel nome che sa di calcio antico. La semifinale di andata a Colonia. Un gol di Bettega al ’37 e poi l’assedio sul campo pesante e maciullato. Massimo è un gattone, salta di qua, salta di la. Resiste fino all’87. Poi Thielen lo trafigge. Ma il giorno dopo i giornali lo incoronano come il salvatore del risultato, pare che sia un predestinato. Alla finale di Leeds ci si arriva con una vittoria per 2 a 0 due settimane dopo. Carmignani è ancora fuori. A Massimo tocca la finale.
Peccato che si rompe un polso, lui grande e grosso, 1oo chili di simpatia semplice e genuina. In porta va Tancredi, non Franco quello che farà grande la Roma, ma Roberto, la Juve perde la coppa senza perdere una partita, 2-2 in casa e 1-1 in Inghilterra, e Massimo perde il tram. Arriva il mostro friulano, Dino Zoff. E anche a chi non sa nulla di calcio, o a chi non importa più nulla del calcio moderno come a me, tremano i polsi. Zoff è una cartolina, è la foto della vittoria di Espana ’82, è un francobollo, è una bandiera ed è indistruttibile. E Massimo indossa la tuta viola, accende la radiolina e si siede in panchina dove rimane inchiodato.
Si allena come un matto tutti i giorni ma per giocare deve attendere tre anni e mezzo e camuffarsi. Farsi crescere la barba e cambiare tuta, colori e soprattutto città. Trovarne una che lo accolga a braccia aperte, Pescara. Abbastanza vicino a casa. La prima promozione in A della squadra abruzzese, 107 presenze su 108 partite per Massimo, tre anni di corsa. La svolta è di nuovo la crudele Juventus. Il Pescara della serie A inizia a crollare verso la metà del 1977/78. Un gol irregolare di Bettega regalato dall’arbitro, per dire che i cicli sono sempre quelli, una sconfitta per 1-2 e la Juve che risorge dopo un periodo cupo e il Pescara che svanisce.
Dopo una processione di squadre minori: Rimini, Fermana, arriva piano l’uscita dal calcio. Allenatore di portieri negli anni ’80, da lui imparano l’arte Iezzo, Castellazzi, Mazzantini, Pagotto, Pantanelli e Storari poi l’oblio, per tutti tranne che per la memoria di Matteo Belli che scrive ed interpreta uno spettacolo teatrale dedicato a Piloni dal titolo, ovviamente: Perseverare Humanum est. E quando i giornali si ricordano di lui? Quando Zoff compie 70 anni, lo usano come articolo di colore di spalla. “Io che ho vissuto la mia vita come dentro ad un imbuto”.