Racconti – Sensualità e traduzioni

Prendi ad esempio la parola senso. In che senso scusa? Avevo un sesto senso nell’infilarmi nelle discussioni a senso unico. Forse gli facevo senso, a me un senso invece lo aveva risvegliato con quel sottile profumo che non riuscivo ad afferrare fino in fondo, di cui non afferravo il senso.

Si, si la parola senso. In inglese ha seimila traduzioni: sense, direction, humor, meaning, purport, point. Ma non aveva davvero senso continuare su questa strada. Sarei sempre uscito sconfitto. “La prima volta mi è capitato traducendo la parola senso. Non sapevo davvero che senso il mio interlocutore stava dando alla parola, dovevo interpretare al volo. Questo mi emozionò”. “Certo che a tradurre caffettiera, armadio, scarafaggio, tegola, non avresti avuto nessuna difficoltà”, “no, no tegola potrebbe dare delle difficoltà. Intendi tegola in senso fisico o una grana?”, “si va bene anche grana, grana grossa o grana padano?”, non ero un umorista sarebbe stato meglio stroncare subito la conversazione a base di doppi sensi. Io che metto i puntini di sospensione come interpunzione e che potrebbero lasciare in sospeso un sacco di cose.

Poi aveva detto, scandendo bene le parole, “io sono solo un extraterrestre a cui piace osservare le cose dall’esterno”, i suoi occhi azzurri avevano per un attimo scintillato. Fosse stato un film di fantascienza di serie B adesso ci sarebbe stato un flashback sulla specie a cui Alessandra apparteneva in realtà. Ma la fredda mattinata della città giocattolo e il ghiaccio nel bicchiere dell’aperitivo dicevano chiaramente che questo non era un film di fantascienza.

A qualche strana specie doveva però appartenere. Le sue non erano domande consuete ma taglienti interrogativi, “io passo la vita ad ascoltare le persone e voglio che dicano cose interessanti ed istruttive”, in effetti la prima porzione della mattinata era passata in uno dei miei deliranti monologhi. Oltre che non umorista non sono neppure estremamente sicuro di me, tendo a cercare di dimostrare che l’interlocutore non sta perdendo tempo passando del tempo con me.

Oddio tempo, ecco un’altra parola che avrebbe potuto mettere un granello di sabbia nella traslazione. Che il traslare da una lingua all’altra sia una scienza è indubbio, magari imperfetta, come il traslare da un monologo ad un discorso. “Traduco spesso la lingua dei gesti”, che Alessandra amasse il suo lavoro e il suo significato era evidente. Spiegando la connaturata vicinanza tra parole e gesti scriveva segni ben precisi nell’aria, tutto al contrario dei miei scomposti e spesso goffi.

Specie affascinante quella di Alessandra, “la prossima volta che passo in zona magari ceniamo assieme. Ma non farti speranze, solo una cena che sfami anche la mia curiosità verso una persona. So che qui se una donna invita a cena un uomo si pensa subito ad altro”, stavolta ero preparato, “guarda sono abituato a confessare il desiderio, anche se non porta a nulla”, ho imparato a farlo da tempo immemore ma forse la frase era suonata come quella di un delicato gioco di apparenze. Gaber avrebbe detto una casellina da riempire, o forse confondo monologo?

Certo in qualche modo il senso, anzi i sensi per uscire dal paradosso multi significato della parola senso, erano stati colpiti. Ero contento di essere uscito a fare due passi nella città giocattolo quella mattina, di essere uscito senza cuffiette nelle orecchie che quando non ho da cercare notizie dalla vita cittadina mi estraneo.

Certo in altri tempi magari ci si sarebbe scambiati gli indirizzi e magari sarebbe nata un epistole da romanzo. Adesso invece sono i tempi di Facebook e tre ore dopo Alessandra la traduttrice con gli occhi trasparenti era già aggiunta, add on dicono gli inglesi, all’infernale macchina del Social network. E meno di dieci minuti dopo mi affrettavo a spiegare che i puntini di sospensione dopo il si può fare, di risposta ad un suo invito ad un aperitivo, non erano una allusione all’invito, un non detto per dire: comunque stamattina scherzavo e poi ci proverò in maniera metodica.

Nello spiegare avrei potuto infilarmi in un vicolo cieco. Era una traduttrice un po’psicologa e un po’ marziana Alessandra? Certo che, mi veniva da pensare, in questo mondo orwelliano non è più possibile neppure idealizzare e scrivere una canzone o un racconto che dica il contrario della realtà.

Era rimasto solo il profumo. Cercai di ricordarmi quello che per un attimo mi aveva distratto in mattinata mentre parlavo con Alessandra ma la tazza di caffè freddo e avanzato e il bicchiere della spremuta spazzavano via con i loro odori consueti anche questo esercizio di immaginazione. Come si tradurrà immaginazione nel linguaggio di Alessandra?